giovedì 31 luglio 2008

Bernardino De Rubeis, sindaco di Lampedusa: 'Il Vaticano apra i conventi e accolga gli immigrati'

Accorato appello del primo cittadino di Lampedusa, Bernardino De Rubeis: "Siamo stanchi di questo smercio di carne umana, l'isola è in ginocchio. Che la Chiesa di Roma non resti impassibile alla sofferenza di questa gente e la ospiti nelle proprie strutture"
LAMPEDUSA (AGRIGENTO) - Il sindaco Bernardino De Rubeis, stanco della situazione, su Ecoradio chiede un intervento immediato del Vaticano e del governo. "Che il Vaticano la smetta di bacchettare il governo centrale e apra le porte dei conventi, dei seminari ormai deserti, delle abbazie affinchè donne e bambini immigrati vengano ospitati dalla Chiesa. Che la Chiesa di Roma non resti impassibile alla sofferenza di questa gente e non commetta altri errori, come quelli commessi in passato, restando silenziosa a fenomeni epocali dove c'è morte". "Il centro di permanenza temporaneo di Lampedusa è al collasso - aggiunge -. È diventato un centro permanente. Mancano le norme igieniche, l'acqua potabile e una rete fognaria. Senza dimenticare lo smaltimento dell'immondizia che aggrava le spese della comunità dell'isola". "Chiedo - continua il sindaco - l'intervento immediato del ministro Maroni: si rechi a Lampedusa. Vogliamo da lui fatti, non parole. Siamo stanchi di questo smercio di carne umana", conclude il sindaco. "La politica del governo di centro destra prima, di centro sinistra dopo e ancora oggi di centro destra è fallimentare, mancano interventi risolutivi."Lampedusa è in ginocchio: è ora di dire basta e trovare delle soluzioni che non riguardino esclusivamente il fenomeno dell'immigrazione clandestina, ma anche quelle che sono le esigenze degli isolani". Il sindaco Bernardino De Rubeis manifesta tutta la sua preoccupazione e sollecita una "visita urgente" sull'isola da parte del ministro dell'Interno Roberto Maroni.L'isola in ginocchio. "In questo momento - dice - il Centro di accoglienza ospita oltre mille persone, per una struttura che può accoglierne al massimo 600. Se si ha l'intenzione di trasformare Lampedusa in una sorta di Asinara di una volta, quella che stanno percorrendo è la strada giusta". De Rubeis definisce "inutile la spesa di 300 milioni di euro per costruire nuovi centri capaci di contenere complessivamente lo stesso numero di immigrati che in questo momento si trovano solo a Lampedusa".Turismo in calo. Il sindaco sottolinea i contraccolpi negativi causati dall'emergenza clandestini: "Stiamo registrando un calo del 30% nelle presenze turistiche, anche a causa dei tagli alle tratte sociali che la Regione ci vuole togliere, lasciando un solo collegamento aereo al giorno per Palermo. Quando il centro è a pieno regime come adesso, a Lampedusa salta tutto, ci sono problemi di fogne, di spazzatura, l'acqua non basta mai. Tutte queste cose, ovviamente, le pagano i residenti dell'isola che versano regolarmente le tasse". Il sindaco ricorda infine che i lavori di ristrutturazione dell'unica scuola dell'isola sono fermi per mancanza di finanziamenti: "Il rischio è che anche il prossimo anno scolastico i nostri ragazzi facciano lezione nei locali della chiesa".
La Sicilia, 31/07/2008

La libertà di stampa, in special modo al Sud, è gravemente minacciata dalla mafia

“Bisogna trovare il coraggio di dire che esiste questo problema”. Lo afferma con forza Alberto Spampinato, consigliere nazionale della Federazione nazionale stampa italiana. Il problema è uno dei più gravi che affligge questo paese, ma che molto spesso viene dimenticato. La libertà di stampa, in special modo al Sud, è gravemente minacciata. La mafia, la criminalità organizzata, i poteri forti hanno buon gioco nel far tacere uomini che molto spesso restano soli. I cronisti di mafia, quelli che parlano di notizie scomode, si trovano a vivere e lavorare in solitudine, dimenticati da istituzioni e mezzi di informazione, isolati dai propri colleghi. Minacciati e costretti a subire violenze fisiche e psicologiche.Uomini che scelgono di dire no alla autocensura, che scelgono di dire no ad un’informazione “mutilata ed approvata”. Giornalisti pagati tre o quattro euro a pezzo.Quello dell’osservatorio sui cronisti sotto scorta è un progetto bello, importante, e coraggioso, ma difficile.“Vogliamo avviare un cammino comune per cominciare a cercare una soluzione concreta a questa situazione, insieme ai colleghi più timorosi e tenendo conto di tutte le preoccupazioni che sono serie e fondate, perché parlare di queste cose da lontano è facile, ma essere direttamente impegnati in questa lotta e poi tornare a casa la sera di notte è un’altra cosa. E lo vogliamo fare, questo cammino, proprio col passo lento dei cronisti più prudenti, più sensati, tutti insieme, tutta la categoria, e ovviamente con i cronisti già minacciati, che hanno dato prova di coraggio. E’ la scommessa di Alberto Spampinato.
Da dove nasce l’idea dell’osservatorio?
L’osservatorio è un’idea che io ho lanciato un anno fa, che man mano ha trovato ascolto e che adesso ha ottenuto l’adesione della Federazione nazionale della stampa, dell’Ordine nazionale dei giornalisti e dell’Unione nazionale cronisti. Inoltre, anche se non è tra i promotori, abbiamo ricevuto dei segnali di attenzione anche dalla Federazione degli editori (Fieg).Negli ultimi anni ho ricostruito la vicenda di mio fratello, Giovanni Spampinato, giornalista de L’ora, corrispondente da Ragusa, ucciso nel 1972. Una di quelle vicende dimenticate, sepolte. Giovanni era uno di quei giornalisti che non solo hanno pagato con la vita il fatto di interpretare il mestiere di fare informazione nel senso più alto, più nobile e che non solo sono stati dimenticati, ma sono stati bistrattati sia in vita che in morte. Solo l’anno scorso la memoria di Giovanni Spampinato ha avuto un alto riconoscimento, il premio Saint Vincent, ma nei primi anni dopo la morte e durante le fasi processuali lui è stato sempre presentato come un ficcanaso, uno che si ostinava a scrivere cose che giustamente gli altri non scrivevano. Le cose che lui scriveva erano notizie, notizie rilevanti, di interesse generale, quelle cose per cui al processo di appello il Procuratore generale disse: “se i giornalisti non fanno queste cose tanto vale che chiudiamo i giornali”. Questa è l’origine di questo progetto. La giuria del premio Saint Vincent ha dichiarato che la vicenda di Giovanni Spampinato è emblematica delle vicende di tutti i giornalisti che sono stati uccisi per mafia e terrorismo. È emblematica per come avviene la vicenda, un giornalista trova una notizia, la scrive, gli altri al contrario non la scrivono e lo isolano. Poi dopo la morte, finché è possibile, viene negato il valore del lavoro svolto dal cronista. Col tempo, per fortuna, ci si accorge del merito di questi uomini.Le vicende di oggi, la storia di Lirio Abbate per esempio, quella di Roberto Saviano, di Rosaria Capacchione, riproducono molti degli aspetti che hanno caratterizzato la vicenda di mio fratello. Mi colpiscono, in particolare, dei meccanismi che sempre si ripetono: abbiamo giornalisti minacciati, altri sotto scorta di cui si sa e molti altri di cui non si sa nulla, perché non hanno la forza di denunciare la situazione di rischio, di pericolo, di censura in cui si trovano, e in questa situazione i giornalisti non riescono neppure a parlarne, a darne notizia. Ho individuato una forma di tabù. Il problema è che nelle regioni dove la mafia ha un potere forte, quello che succede è che si ha un’informazione limitata perché c’è un confine che è segnato da mafiosi, prepotenti, coloro che devono difendere degli interessi costituiti e che, specialmente sul terreno locale, influenzano la proprietà dei giornali, le direzioni, tutta l’informazione, i rapporti sociali e la politica. Oltre questo confine ci sono delle notizie di grande importanza ed interesse, che influenzerebbero la politica così come le scelte dei cittadini, che però non possono essere diffuse, chi osa farlo entra in un campo minato. Noi, intendo come categoria di giornalisti, non possiamo continuare, di fronte a questo stillicidio di episodi gravi, a dire solo parole di solidarietà. Dobbiamo fare qualcosa di più. Le parole dunque non bastano più, ed è quello che ha ribadito lo stesso presidente dell’ordine dei giornalisti, Lorenzo Del Boca.
Cosa si propone di fare l’osservatorio, quali saranno i suoi compiti?
Non sappiamo ancora come organizzeremo l’osservatorio. Alla ripresa dalla pausa estiva faremo le prime riunioni organizzative, ma l’idea generale è quella di creare un organismo che possa produrre un rapporto annuale che fornisca una descrizione accurata, completa della vicende delle vittime di mafia perché fanno informazione sulla mafia, attraverso una seria raccolta dei dati. Non esiste, infatti, un archivio, una banca dati di fatti e avvenimenti riconducibili alla mafia e all’acqua in cui nuota. Ancora oggi non esiste veniamo a conoscenza soltanto dei fatti più eclatanti che riescono ad imporsi all’attenzione dei media.pensiamo ad u rapporto che risponda anche ad una attenzione internazionale che si è creata attorno alla situazione italiana, che vista dall’estero, forse, impressiona ancor di più. L’altro compito sarà quello di creare, attraverso l’osservatorio, un organismo che sia attivo, vivo, che intervenga tutte le volte che c’è un episodio e che prenda contatto con le persone che sono in pericolo, che sono minacciate, e si rechi sul posto per rendersi conto delle circostanze. E che tenga sotto osservazione anche tutti quegli altri aspetti che, ho notato, si ripetono costantemente.
Quali sono?
Per esempio il deterioramento dei rapporti tra il giornalista minacciato ed i suoi colleghi di categoria. C’è una dinamica che innesca l’avvelenamento dei rapporti, anche fra persone per bene. Più alla lunga l’obiettivo sarà quello, analizzati tutti questi dati, di fare delle proposte per evitare che al giornalista si presentino queste due alternative: scrivere una notizia scomoda e rischiare danneggiamenti, minacce o la vita oppure tenerla nel cassetto e vivere senza conseguenze negative. Ma non può essere questa l’alternativa. Il giornalista non può sempre vedersela da solo perchè fa parte di un sistema dell’informazione.Qui viene fuori un altro aspetto che mi porta a paragonare questa realtà a quella del pizzo. La censura su notizie che infastidiscono criminali, boss mafiosi, personaggi potenti può essere paragonato al pizzo che viene imposto ad industriali e commercianti. È, come l’estorsione, una forma di violenta imposizione. Finora tutto ciò è stato subito in silenzio.
Ma chi è che paga il pizzo dell’autocensura?
Ci sono tanti cronisti, onesti, persone per bene, che si trovano in situazioni di pericolo serio a cui non si possono sottrarre se non, nell’immediato, pagando questa imposizione. Ma ci sono molti altri casi in cui la cosa non è così chiara. Non può essere solo la paura, il timore di una futura ritorsione a giustificare che un cronista tenga una notizia nel cassetto. Questo confine non è chiaro. La Confindustria siciliana ha posto una condizione per cui chi paga il pizzo non può essere iscritto. Ma se un imprenditore è seriamente minacciato, ha un coltello alla gola, certo di questo si deve tener conto. Altro è accettare di pagare per il quieto vivere o perché si ottengono dei vantaggi. Qui entra in gioco un aspetto che è etico e culturale al contempo.
E la politica?
Noi abbiamo impostato il progetto innanzitutto sul terreno professionale e culturale senza andare ad invadere direttamente il terreno della politica, ma è chiaro che un progetto del genere richieda delle risposte anche da parte della politica. Non è vero che non si può fare nulla per i cronisti di mafia. Ad esempio per i cronisti che si occupavano di terrorismo furono create più ampie garanzie, forme più articolate di protezione.
I giornalisti possono contribuire?
Sono proprio loro che possono costituire la scorta più importante ai cronisti di mafia. Si tratterebbe di una scorta mediatica. Il giornalista che si occupa di fatti di mafia non solo non deve essere lasciato solo, ma deve sempre essere affiancato e da altri colleghi e da dirigenti del suo giornale, ma nelle situazioni più gravi tutta la categoria dei giornalisti si deve riconoscere nel cronista minacciato e deve trovare delle forme di solidarietà che siano attive.
In che modo?
Condividendo la firma, spersonalizzare certe notizie pubblicandole senza firma, affiancando più di una firma, usando pseudonimi, aggiungendo alle cronache commenti ed editoriali delle firme più autorevoli. Per queste cose dovrebbero esserci dei protocolli, delle procedure standardizzate.

Sinistra, l'opposizione è nelle nostre mani!

La sinistra deve fare la sua parte nella costruzione dell’opposizione contro il governo Berlusconi. Se la sinistra venisse meno a questo suo elementare compito non vi sarebbe nessuna efficace azione di contrasto alle politiche della destra oggi al comando del paese. Nel Seminario di Firenze dello scorso 5 luglio “Di chi è la politica? Le diverse forme e modi dell’agire politico” è stata esplorata, da tante e tanti, la questione complessa del rinnovamento delle modalità e dei meccanismi di azione della politica, indispensabile alla ricostituzione di una sinistra unita e plurale nel nostro paese. Si è assunto l’impegno di pubblicare i contributi alla discussione il più presto possibile. Ma altrettanto vitale è innescare in questo momento drammatico nuove capacità di coordinamento e di lotta, attivando processi di mobilitazione e dando il nostro contributo a quelli che sorgono spontaneamente, rafforzando la loro unitarietà. In pochi mesi di attività il governo Berlusconi sta erodendo gravemente alcuni dei pilastri fondamentali della democrazia: le schedature e le impronte ai rom adulti e bambini e l’introduzione del reato di immigrazione clandestina alimentano direttamente un’ondata di razzismo e di xenofobia. L’uso dell’esercito in compiti di ordine pubblico e antisommossa rende esplicite le pulsioni autoritarie del governo. Vengono definitivamente meno l’universalità dei diritti, il principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, il carattere personale della responsabilità giuridica, l’obbligatorietà dell’azione penale. Nel mordere della crisi economica che allarga la forbice fra inflazione e retribuzioni il Decreto legge 112 (“manovra finanziaria”) aggrava le condizioni materiali di vita delle persone e lede ulteriormente i diritti del lavoro, mentre fasce crescenti di popolazione sono colpite da pesanti difficoltà economiche che alimentano un senso di rabbia ma anche di isolamento. Si approfondisce la precarietà e l’insicurezza nel lavoro e si attaccano i diritti sindacali. L’ambiente è minacciato dal ritorno di un nucleare pericoloso quanto impotente, i beni pubblici – l’università statale, i servizi sanitari, la scuola pubblica, la tutela dei beni culturali del territorio e del paesaggio – sono minacciati a morte. Si tolgono risorse ai Comuni spingendoli a tagliare i servizi sociali, a privatizzare le municipalizzate ed alienare il patrimonio pubblico senza più alcun controllo urbanistico da parte delle regioni. Di fronte a tutto questo la sinistra è frantumata e silenziosa, consumata da faide interne. Più si prolunga il silenzio e più l’effetto è devastante e la disgregazione si fa inarrestabile. Per contrastare questa deriva noi proponiamo l’avvio fin da ora, nel corso dell’estate, di un percorso di estesa attivazione delle forze e delle coscienze, che miri alla ripresa su basi nuove dell’opposizione al governo Berlusconi e al berlusconismo. Il primo passaggio necessario è proprio costituito dall’opposizione diffusa alla manovra finanziaria (DL 112), con l’impegno a farne scaturire dopo l’estate una grande mobilitazione unitaria della sinistra in tutte le sue varie componenti e sfaccettature. Crediamo che una simile mobilitazione sia anche il miglior strumento per riprendere il cammino reale del processo costituente dal basso di una sinistra nuova, unita e plurale, che sperimenti un lavoro capillare, decentrato e democratico, in modo che la fiducia di persone provenienti da tradizioni e esperienze diverse cresca insieme con il lavoro comune in un sistema di "autonomie confederate" come forme di associazione e coordinamento, anche ambiziose, fra soggetti differenti, dando voce e casa alle sue tante espressioni diverse tuttora attive sul territorio nazionale – associazioni, partiti, movimenti, singoli individui – che non si rassegnano a sentirsi “esuli in patria” e che ancora (ma per quanto?) rappresentano le forze vive di un’altra Italia.
Anna Picciolini, Massimo Torelli, Andrea Alzetta, Andrea Bagni, Fulvia Bandoli, Maria Luisa Boccia, Elio Bonfanti, Paolo Cacciari, Maria Grazia Campus, Giuseppe Chiarante, Stefano Ciccone, Paolo Ciofi, Piero Di Siena, Antonello Falomi, Pietro Folena, Paul Ginsborg, Chiara Giunti, Siliano Mollitti,Andrea Montagni, Fabrizio Nizi, Niccolò Pecorini, Ciro Pesacane, Marina Pivetta, Bianca Pomeranzi, Tiziano Rinaldini, Ersilia Salvato, Mario Sai, Bia Sarasini, Anita Sonego, Aldo Tortorella
Link dove aderire all'appello: http://www.forumsinistra.it/viewtopic.php?f=20&t=74
link dove discutere dell'appello: http://www.forumsinistra.it/viewtopic.php?f=2&t=75

martedì 29 luglio 2008

FIGLI D'ARTE. Ciancimino jr sotto scorta?

di Gabriele Isman
Mettere sotto scorta Massimo Ciancimino, a rischio per la sua collaborazione con la giustizia sui giorni delle bombe 1992 in cui lo Stato, attraverso i Ros, cercò una trattativa con Cosa nostra che presentò le sue richieste attraverso il "papello". A chiedere la protezione del figlio 44enne di Vito Ciancimino è stata la Procura di Palermo dopo le minacce - con lettere minatorie e anche almeno un pedinamento - che hanno allarmato i magistrati.
L´episodio più circostanziato risalirebbe al 27 giugno scorso: Massimo Ciancimino era appena sbarcato all´aeroporto Falcone-Borsellino. A prenderlo quel giorno erano andati la moglie con il figlio, Vito Andrea: lungo il tragitto da Punta Raisi verso Palermo, Ciancimino si era poi accorto di essere seguito da due scooter a rotazione. Una delle moto era stata notata sotto casa a Palermo da Ciancimino, condannato in primo grado a 5 anni per riciclaggio nell´ambito di un´inchiesta sulla fornitura di gas dalla Russia. Moglie e figlio erano dovuti scendere dall´auto, e Massimo Ciancimino aveva proseguito da solo il tragitto in macchina, con il terrore che quello potesse essere qualcosa più di un segnale, forse l´ultimo viaggio. Quel giorno, però il figlio di don Vito era riuscito a segnarsi il numero di targa di uno dei due scooter: nelle verifiche successive il mezzo è risultato rubato.
La decisione per la tutela di Massimo Ciancimino - professione dichiarata: mediatore d´affari - arriverà probabilmente giovedì quando è prevista una riunione del coordinamento provinciale per l´Ordine e la sicurezza, a cui partecipano il prefetto e i vertici della forze di polizia.
Sarà necessario poi un successivo passaggio dell´Ucis, l´ufficio centrale interforze per la sicurezza individuale, con sede a Roma, che dovrà indicare il livello di tutela da assegnare eventualmente a Ciancimino: dal cosiddetto livello uno - con passaggi di una pattuglia della polizia più volte al giorno sotto casa della persona da tutelare - al cinque, ovvero la scorta vera e propria.
Un passato ingombrante per lui, che nel 1992 - in mezzo alla strategia stragista di Cosa Nostra voluta da Totò Riina - convinse suo padre a trattare con i Ros che, a nome dello Stato, cercavano un´uscita dal momento nero che vide cadere Falcone e Borsellino. E proprio su quella trattativa e sul ruolo di don Vito nella cattura di Riina, Ciancimino sta collaborando con i magistrati nel suo presente da aspirante collaboratore di giustizia.
Come ricordato da La Stampa ieri, lo stesso boss stragista, in uno dei tanti processi a suo carico, ha parlato in aula per sottolineare l´assenza del testimone Massimo Ciancimino. Un segnale di peso, nel tradizionale silenzio di Riina in aula, ma anche la dimostrazione che il nipote del barbiere di Corleone è un personaggio scomodo.
Il sospetto che circola a Palazzo di giustizia e nelle forze dell´ordine è che la collaborazione di Massimo Ciancimino sia soltanto un modo abbastanza abile per difendere da possibili sequestri e confische il patrimonio occultato da suo padre negli anni in cui era stato assessore ai Lavori pubblici (dal 1959 al 1964, con sindaco Salvo Lima e 4.205 licenze edilizie firmate nel sacco di Palermo) e poi, nel 1970, primo cittadino. Soldi occultati, magari in conti all´estero, per cifre che potrebbero essere davvero ingenti. D´altra parte nel 2002, pochi giorni prima che l´ex sindaco morisse, il Comune chiese un maxi risarcimento danni da 150 milioni di euro. Don Vito ne restituì soltanto sette.
da la Repubblica

lunedì 28 luglio 2008

Gela, relitto greco alla luce dopo 25 secoli

Si tratta di una imbarcazione in legno, della lunghezza di 21 metri, affondata a 800 metri dalla costa di Gela, durante una tempesta, mentre era carica di mercanzie prelevate nell'antica colonia
GELA (CALTANISSETTA) - Si sono concluse positivamente, nel mare di contrada "Bulala", a 2 km a est di Gela, le operazioni di recupero del relitto della nave greco-arcaica risalente al 500 avanti Cristo, che il fondale argilloso, a cinque metri di profondità, ha conservato e protetto fino ai nostri giorni.Un lungo applauso (tra cui quello dell' assessore regionale ai beni culturali, Antonello Antinoro) coperto dalle sirene di una ventina di imbarcazioni a supporto dei mezzi operativi, hanno salutato il ritorno in superficie degli antichi resti.Si tratta di una imbarcazione in legno, della lunghezza di 21 metri, che si ritiene affondata 25 secoli addietro, a 800 metri dalla costa, durante una tempesta, mentre, carica di mercanzie prelevate nell'antica colonia greca di Gela, stava facendo ritorno alla madrepatria. È una delle poche testimonianze di nave greco-arcaica realizzata con fasciame "cucito", cioè legato da corde di fibre vegetali.Furono due sub dilettanti locali, Gino Morteo e Gianni Occhipinti, nel 1988, a scoprire il relitto, durante una delle loro immersioni, a recuperare alcuni reperti e a consegnarli alla soprintendenza alle antichità di Caltanissetta.Un sopralluogo degli archeologi permise di accertare la rilevante importanza storico-culturale della scoperta. Fu riportata alla luce una notevole quantità di reperti, tra cui vasellame attico a vernice nera e due rarissimi "Askoi" a figure rosse.L'operazione di recupero della nave arcaica di Gela è frutto della collaborazione pubblico-privato che vede impegnati con la soprintendenza alle antichità e ai beni culturali di Caltanissetta, la Guardia Costiera, l'Eni con le sue aziende "Raffineria di Gela" e "Saipem", nonchè l'impresa "Eureco" dell'indotto del petrolchimico.Un pontone polivalente, il "Vincenzo Cosentino" dotato di una gru da 200 tonnellate e camera iperbarica, ha portato in superficie la chiglia della lunghezza di 11 metri e la cosiddetta "ruota di poppa" della nave.Le parti del natante resteranno immerse per alcuni giorni in vasche piene di PEG (glicole polietilenico), un protettivo chimico, e poi trasportate in Inghilterra, nel laboratorio Mary Rose Archeological Services, di Portsmouth (Ampshire) dove già si trovano da tempo i primi pezzi lignei facenti parte della prua, recuperati nel 2004.La Soprintendenza di Caltanissetta ha progettato la realizzazione di un "museo del mare" da costruire nel "bosco littorio" di Gela, dove esisteva l'emporio dell'antica colonia greca, da cui si ritiene sia partita la nave, affondata dalla tempesta 2.500 anni fa, e riportata oggi alla luce.
28/07/2008

Ato Belice Ambiente. Ancora non arrivano gli stipendi di giugno: stato di agitazione degli operatori

Per la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani a Corleone (e in tutti i comuni dell’Ato “Belice Ambiente”), si va di male in peggio. Da alcuni giorni non è più utilizzabile la discarica di Camporeale, devastata da un incendio. Un grosso problema perché nessun altro comune dell’Ato ha una discarica in regola, per cui gli autocompattatori si stanno scaricando a Bellolampo, con costi del servizio proibitivi. Come se ciò non bastasse, ad oggi, 28 luglio 2008, tutti gli operatori devono ancora percepire lo stipendio di giugno e adesso anche quello di luglio. E non lo percepiscono perché l’Ato non ha soldi. E non li ha perché molti comuni non pagano. E non pagano perché… Una maledetta catena di responsabilità, che sta creando fortissimi disagi ai lavoratori e ai cittadini dei comuni interessati. In sostanza, c’è stato il tempo in cui Comuni e Ato hanno scialacquato sulla pelle dei cittadini-utenti (in diversi comuni le bollette sono state aumentare del 200-300%), effettuando assunzioni clientelari che hanno fatto la fortuna elettorale di tanti (e a Corleone gli esempi non mancano, come non mancano a Bisacquino, a Monreale, ecc.). Adesso, invece, è tempo di “passione” e non si pagano puntualmente nemmeno gli stipendi. Le organizzazioni sindacali hanno proclamato lo stato di agitazione, ma non si può escludere che in questo o in quel comune possano esplodere scioperi selvaggi, messi in atto da operatori esasperati.
Uno spiraglio, invece, sembra essersi aperto per passaggio a tempo pieno dei 18 operatori Ato di Corleone, gli unici che ancora sono a part-time (alcuni a 30 ore settimanali ed altri a 24 ore). Nell’incontro di mercoledì scorso dei sindacati col presidente dell’Ato, prof.ssa Lea Giangrande, si è sottoscritto un verbale d’intesa, da dove viene fuori la disponibilità a favorire il full-time del personale se il comune di Corleone si assumerà il costo finanziario dell’operazione. Al riguardo, il consiglio comunale di Corleone aveva già approvato all’unanimità un ordine del giorno con cui invita il sindaco a fare tutti i passaggi necessari per arrivare al tempo pieno per tutti gli operai. E adesso il sindaco Iannazzo pare che stia già preparando una richiesta ufficiale all’Ato. D’altra parte, se vuole davvero far partire la raccolta differenziata porta a porta e migliorare la qualità del servizio, è necessario avere personale a tempo pieno.
28.07.08
FOTO. La discarica di Camporeale

L'avvocato Gregorio Di Maria: "Così ho visto assassinare il bandito Giuliano"

La sequenza filmata dei funerali del bandito Giuliano. Il racconto dell'avvocato De Maria, ormai centenario, nel cui cortile fu esposto il corpo senza vita del bandito. Queste drammatiche fotografie sono state scattate da Salvatore Scaduto, di Salemi, arrivato tra i primi sul posto del delitto. Il cadavere del bandito è stato ritratto poche ore dopo la messa in scena dei carabinieri del colonnello Luca e del capitano Perenze nel cortile dell'avvocato di Castelvetrano. Il risentimento dei segugi della prima ora per essere stati esclusi dall´atto finale e i ricordi di coloro che furono i primi a vedere la salma.

di LINO BUSCEMI
A Castelvetrano, all'alba del 5 luglio 1950, il cadavere di Salvatore Giuliano, crivellato di colpi nella notte appena passata, dopo un'accurata preparazione, fu mostrato a giornalisti, fotografi e curiosi. La foto che lo ritrae bocconi, con la canottiera intrisa di sangue fra una pistola, un mitra, uno zaino, alcuni ufficiali dei carabinieri e il procuratore generale Emanuele Pili, nel cortile della casa dell'avvocato Gregorio Di Maria (e non De Maria, come erroneamente si legge nella maggior parte dei testi in circolazione sulla morte del bandito di Montelepre), ha fatto il giro del mondo e da sola suggella la fine di un importante pezzo di storia del dopoguerra siciliano e l'inizio di una intrigata vicenda dai contorni oscuri e mai del tutto chiariti. La prima versione ufficiale costruita a tamburo battente per i giornalisti fu che Giuliano cadde nel corso di un conflitto a fuoco con una squadriglia dei carabinieri diretti dal Capitano Antonio Perenze.Il colonnello Ugo Luca, numero uno del Comando Forze Repressione Banditismo in Sicilia (Cfrb), l'avallò senza tentennamenti. Alle 6 di quello stesso 5 luglio fece trasmettere un dispaccio al ministro dell'interno Mario Scelba e al comando generale dell'Arma a Roma: «Da Castelvetrano colonnello Luca segnala che ore 3,30 oggi dopo inseguimento centro abitato et conflitto a fuoco sostenuto da squadriglie del Cfrb rimaneva ucciso il bandito Giuliano. Nessuna perdita parte nostra. Cadavere piantonato disposizione autorità giudiziaria…». Naturalmente il governo, soddisfatto dall'eccellente risultato, diffuse l'informazione e la difese strenuamente, in Parlamento e fuori, considerandola l'unica verità. Nel corso del Consiglio dei ministri, riunitosi poche ore dopo l'arrivo della lieta notizia, i ministri si alzarono e battendo le mani scandirono: «Viva Luca, promuoviamolo generale subito».
Passata l'euforia, cominciarono a insinuarsi i dubbi. È un susseguirsi di voci che prendono corpo a Castelvetrano e arrivano ai piani alti dei palazzi. Diversi particolari non quadravano, soprattutto perché a primo acchito contraddicevano il racconto di chi quella notte, nella via Mannone a pochi passi da casa Di Maria, vide e udì una fragorosa sparatoria. A storcere per primi il naso, su quella che poi verrà definita una "sceneggiata" ben orchestrata, furono proprio due carabinieri "scontenti": il colonnello Giacinto Paolantonio e il maresciallo Giovanni Lo Bianco. I due dopo un anno di lavoro, gomito a gomito, proprio nella fase conclusiva della vicenda Giuliano, all'improvviso furono scaricati da Luca, che non li informò della cattura imminente. Anzi, alla chetichella, la sera del 4 luglio si fa accompagnare di corsa a Camporeale, a un tiro di schioppo del teatro delle "operazioni".Evidentemente nella testa di Luca covava da tempo l'idea — come sostiene Lo Bianco — «di attribuirsi in partenza tutto il merito dell'eliminazione di Giuliano per avere la certezza della sua promozione. Oppure, cosa forse più attendibile, per assecondare Gaspare Pisciotta che gli avrebbe imposto tale decisione intuendo che noi (io e Paolantonio) avremmo potuto ostacolare il suo piano che era quello di non consegnarci il suo capo bandito vivo». Quasi di malavoglia ma con rabbia, Paolantonio, di propria iniziativa, raggiunse la mattina del 5 luglio Castelvetrano e lì, vecchia volpe, intuì che le cose, probabilmente, andarono diversamente di come volevano far credere Perenze e Luca. Egli, che conosceva bene Giuliano e anche la sua vanità, non si capacitava, alla vista del cadavere, di alcune cose: come era vestito, l'assenza nel polso destro dell'inseparabile orologio d'oro, la strana canottiera insanguinata, ma soprattutto le ferite sotto l'ascella destra che apparivano non recenti. Paolantonio avrà anche raccolto qualche confidenza e si sarà fatta una precisa opinione che la sera stessa svelò al maresciallo Lo Bianco.L'inseparabile duo giunse a delle conclusioni che ritenne di portare subito a conoscenza di un eminente uomo politico siciliano, il quale, notoriamente, nutriva nei confronti del ministro Scelba la stessa simpatia che il limone ha per il bicarbonato. Scrive Lo Bianco nel suo resoconto inedito della fine di Giuliano ("Il carabiniere e il bandito", edizione Mursia): «Qualche giorno dopo il col. Paolantonio si recò dall'allora Presidente della Regione, Franco Restivo... al quale aveva esposto tutto dettagliatamente. Fu così che il parlamentare ritenne di informare della vicenda il suo amico dottor Renzo Trionfera, redattore romano del settimanale L'Europeo, che inviò subito a Castelvetrano il giornalista Tommaso Besozzi». Tale circostanza è confermata dal giornalista Aurelio Bruno e dall'avvocato Emanuele Limuti nel loro libro "Spie a Palermo" (edizione Lussografica), i quali parlano di uno scoop «pilotato dall'alto e che contribuì a fare esplodere lo scandalo, invece di soffocarlo». Besozzi raggiunse il luogo del delitto, incontrò diverse persone. Infine per il numero 29 del suo settimanale scrisse il memorabile pezzo dal significativo titolo "Di sicuro c'è solo che è morto. Un segreto nella fine di Giuliano".
Una vera e propria inchiesta con la quale, punto per punto, Besozzi contestò la versione ufficiale dei carabinieri e dimostrando che nel cortile Di Maria fu organizzata una pacchiana messa in scena. C'erano molti particolari che alimentavano i dubbi: alcune ferite nel corpo di Giuliano, specie quella sotto l'ascella destra — sono parole di Besozzi — sembravano tumefatte come se risalissero a qualche tempo prima; altre erano a contorni nitidi e apparivano più fresche. Due o tre pallottole lo avevano raggiunto al fianco e avevano prodotto quei fori grandi a contorni irregolari tipici dei colpi sparati a bruciapelo; altre erano entrate nella carne lasciando un forellino minuscolo perfettamente rotondo. Il tessuto della canottiera appariva intriso di sangue dal fianco alla metà della schiena, e sotto quella grossa macchia (aveva oltre due palmi di diametro) non c'erano ferite. Concluse che era logico pensare che il corpo del bandito anziché bocconi fosse rimasto per qualche tempo in posizione supina, perché tutto quel sangue doveva essere sgorgato dalle ferite sotto l'ascella e certamente era sceso, non poteva essere andato in su. Insomma per Besozzi Giuliano è stato ucciso altrove (da chi?) e non dai carabinieri. Che il giornalista avesse colto nel segno lo testimonia l'"avvocaticchio" Di Maria (un arzillo quasi centenario residente ancora a Castelvetrano e che certamente si porterà nella tomba i tanti segreti sulla reale fine di Turiddu) il quale telefonò allarmato a Perenze dicendo: «Cosa posso fare? Sono rovinato! Avevate detto che tutto sarebbe filato liscio a casa mia. E invece…». Il Perenze lo convinse a sporgere querela contro "L'Europeo" invitandolo a non parlare con nessuno. Come finì la querela non si è mai saputo.Anche l'inviato de "L'Unità" Maurizio Ferrara (padre di Giuliano) quel 9 luglio 1950, scrisse un lungo articolo dal titolo "Come fu ucciso Giuliano? Il racconto del cap. Perenze smentito dai fatti". Una serie di riflessioni, interrogativi e tanti dubbi. È, tuttavia, un'altra penna de "L'Europeo", Nicola Adelfi, che completa "l'opera" di Besozzi Sul numero 30 del settimanale, Adelfi scrive un lungo articolo che non si presta ad equivoci già nel titolo: "La verità sulla morte di Salvatore Giuliano. Lo uccise nel sonno Pisciotta".Nell'estate 2007 chi scrive (insieme allo studioso Giuseppe Maniglia che filmò tutto), intervistò l'avvocato Di Maria su quel che accadde quella calda notte nella sua abitazione. «A mezzanotte e mezza del 5 luglio — affermò papale papale il Di Maria — arrivò Gaspare Pisciotta e alle tre e mezza o giù di lì uccise Giuliano. Dormivo nella stanza vicina a quella del mio ospite: ho visto i lampi e ho sentito due spari. Pisciotta scappò passandomi davanti al letto. Mi alzai e vidi Giuliano morto riverso sul letto. Mentre cercavo di pensare cosa fare, bussarono alla porta con insistenza. Era Perenze con due carabinieri. Presero il cadavere, lo vestirono alla meglio e lo portarono giù nel cortile. Poco prima mi intimarono di non muovermi. Dopo alcuni secondi di silenzio, sentii ripetuti colpi di mitra». Qualche anno fa, Franco Grasso rivelò (vedi il volume edito da Kalós "Le radici del presente" e alcune interviste rilasciate a Tano Gullo di "Repubblica") che anche lui avvertì, in quanto presente quel 5 luglio del 1950 a Castelvetrano, il giornalista Tommaso Besozzi dell'imbroglio di cortile Di Maria. Gli disse testualmente, dopo avere incontrato all'obitorio il medico legale Ideale Del Carpio: «Fai attenzione. Non credere una parola di quel che ti diranno Luca e Perenze. Giuliano è stato ucciso a tradimento nel sonno. Hai tutto il tempo per accertarlo, prima che esca il tuo settimanale ».Sappiamo come finì: non successe nulla. Il Potere si chiuse a riccio e nessuno pagò. Anzi furono tutti promossi: Luca divenne generale di brigata; Perenze maggiore e poi colonnello; Paolantonio fu nominato comandante dei vigili urbani di Palermo; per l'eccellenza Pili (al momento dei fatti il più alto magistrato del distretto che non disdegnò di incontrare, alcuni mesi prima, il latitante Giuliano), dopo la pensione, gli riservarono un posto di riguardo presso l'ufficio legale della Regione.
(La Repubblica/Palermo, 06 luglio 2008)

Archeologia. Vi fu un maremoto a Gela nel V secolo a.C.? Parla la soprintendente Rosalba Panvini

Gela. Ci fu un maremoto a Gela nel V secolo a.C.? Affondò per questo la nave greca di Gela? E' un' ipotesi che prende sempre più corpo via via che si analizzano i resti ed il carico della nave greca e si comparano con altri dati. Nel periodo in cui l'imbarcazione affondò finisce anche la vita dell'emporio arcaico di Bosco Littorio, l'area commerciale della colonia greca, di fronte al porto, venuta alla luce negli anni scorsi e nelle cui botteghe in mattoni crudi vi sono proprio i segni di crolli per eventi traumatici quali un maremoto o un terremoto. Il Soprintendente di Caltanissetta dott Rosalba Panvini sta studiando questa ipotesi. Ma la sua attenzione al momento è catalizzata sulle fasi che di qui a due anni dovranno portare all'esposizione del relitto e del suo immane e prezioso carico in un museo proprio a Bosco Littorio tra le botteghe artigiane in cui erano esposte e vendute le mercanzie provenienti dal mare. I fondi per 5 milioni e mezzo di euro la Regione li ha da tempo. Con la dott. Panvini ripecorriamo momenti e curiosità che riguardano la nave greca.
Nel 1988 al momento della segnalazione dell'esistenza in mare di un relitto, pensavate ad una scoperta così eccezionale?
«Dai materiali consegnatici dai due sub abbiamo intuito di essere di fronte ad una grande scoperta ma mai di queste proporzioni. E' un relitto eccezionale, unico, ed ha soprattutto il carico al completo».
Scoprire un' imbarcazione, esplorarla e riportarla a terra non è un'esperienza che capita spesso ad una Soprintendenza. Quali difficoltà avete incontrato?
«Durante le campagne di scavo subacqueo abbiamo dovuto lottare con l'insabbiamento continuo dei fondali che ha ostacolato non poco l'esplorazione del relitto. Una fase delicata è stata quella della scelta della tecnica migliore per il restauro dei legni. Li dobbiamo consegnare alla storia e fare in modo che durino».
Dallo studio dei materiali recuperati, quale aspetto particolare o curioso è emerso?
«Abbiamo la certezza che durante la navigazione si svolgessero culti in onore degli dei. Abbiamo trovato 4 arule, il braccio di una statuetta in legno forse di Atena o Poseidone, un porcellino simbolo di culti in onore di Dioniso protettore dei naviganti dai pirati. Ma la conferma ulteriore è venuta da una statuetta che abbiamo trovato da poco. E' la statua di Atena Lindia seduta in un trono con i braccioli come quelle in uso nei luoghi di culto. I naviganti che stavano lontani da casa per mesi praticavano a bordo i riti propiziatori. Lo attesta anche Tucidide ed abbiamo la certezza che anche sulla nostra nave si svolgevano cerimonie religiose. I ritrovamenti sul relitto ci hanno consentito di ricostruire vari aspetti della vita a bordo. L'equipaggio si cibava di gallette, di parti bovine che aveva portato in nave già macellate e di pesce. A bordo c'era una cucina con un focolare circolare coperto di tegole che abbiamo ritrovato».
Quali sono i progetti della Soprintendenza sul futuro di questa nave?
«Uno solo: poterla esporre in pubblico. Tra due anni il restauro dei legni sarà completato ed entro quella data la struttura museale dovrà essere pronta per ospitare nave e reperti. Per la Sicilia e Gela avere un museo del genere apre opportunità inimmaginabili. E poi ovviamente c'è da programmare il recupero del secondo relitto».
M.C.G. (La Sicilia, 27.07.08)
FOTO. Rosalba Panvini, soprintendente di Caltanissetta. SOTTO. Il museo di Gela

Il 2º relitto: I segni dei viaggi tra Gela e l'Egeo
Gela. Non uno ma due relitti greci hanno custodito gelosamente per secoli i fondali di Gela. La seconda imbarcazione, di età più tarda della prima, scoperta nel 1990, giace ad un km dalla primo e più famoso relitto ed è stata già oggetto di esplorazioni subacquee che ha dato risultati molto interessanti. Il secondo relitto di Gela di viaggi tra l'Egeo ed il Mediterraneo ne avrà fatti così tanti che lo scafo porta ancora i segni evidenti di varie riparazioni effettuate anche riciclando i suoi stessi legni. Ha solcato più volte i mari quell'imbarcazione finchè non è affondata mentre stava per raggiungere l'emporio di Bosco Littorio nella polis di Gela. Le pietre della zavorra hanno consentito di proteggere per 2.500 anni ceramiche attiche della seconda metà del V secolo A.C. ed anche uno strigile in argento, lo strumento utilizzato dagli atleti per nettarsi il corpo dagli oli usati durante le competizioni sportive. C'era anche un atleta a bordo della nave? Non lo sappiamo. Può darsi che l'oggetto faceva parte della merce da vendere. La natura argillosa dei fondali gelesi ha permesso la conservazione, sulla sommità dei madieri della nave, del pagliolato inferiore, cioè di una struttura di supporto della nave, realizzata tramite una serie di tronchi cilindrici affiancati che fungevano da piano d'appoggio per la zavorra di pietre. E' venuto alla luce anche un poderoso paramezzale largo 120 centimetri, cosa che lascia intendere che il secondo relitto di Gela sia un'imbarcazione di grandi proprzioni. Sicuramente più grande di quanto si è pensato al momento della sua scoperta. Lo scafo porta i segni di varie riparazioni. Un vecchio madiere della nave fu riutilizzato come elemento del pagliolato della stessa.
M.C.G.

sabato 26 luglio 2008

Beni Confiscati. Don Luigi Ciotti e Luciano Ligabue piantano un albero di ulivo

26/07/2008
Sulle terre confiscate ai boss, devastate da incendi sospetti e teatro di frequenti danneggiamenti, e' tornato il simbolo della pace: l'ulivo. A piantarlo sono stati il cantautore Luciano Ligabue e il presidente di Libera, don Luigi Ciotti, che questa mattina hanno interrato la prima delle 2000 piante che sorgeranno in contrada De Sisa, terreno confiscato al boss Salvatore Genovese, tra i comuni di Monreale e Partinico. Grazie alla campagna per la legalita', lanciata dal comune d'origine del cantante, Correggio, e altri paesi in provincia di Reggio Emilia (Campagnola Emilia, Fabbrico, Rio Saliceto, Rolo e S.Martino in Rio) si potranno comprare le piante che sostituiranno quelle devastate dall'incendio scoppiato lo scorso 14 giugno. Il rogo nel terreno, confiscato alla mafia e assegnato alla cooperativa Pio La Torre-Libera Terra, ha distrutto 50 piante di ulivo. ''La causa dell'incendio e' incerta - ha detto Enzo Di Girolamo, sindaco di Altofonte e presidente del consorzio Sviluppo e legalita' - di sicuro si e' propagato sull'unica porzione di terreno collinare che ospitava ulivi della cooperativa, il resto del fondo ancora incolto non e' stato investito dalle fiamme''. Nei programmi della cooperativa era prevista la realizzazione di un uliveto su tutti i sette ettari di terreno a contrada De Sisa. E' per questo che il coordinamento Libera di Reggio Emilia ha promosso la campagna di sottoscrizione ''Una collina di ulivi per una terra Libera dalla mafia'' per raccogliere i fondi necessari all'acquisto di duemila alberelli. ''Il progetto, del costo di 14 mila euro - ha spiegato don Ciotti- punta a rilanciare l'attivita' della cooperativa, per liberare appieno queste terre dall'oppressione mafiosa. Questa prima pianta la voglio dedicare a Pio La Torre, promotore della legge sulla confisca dei beni ai mafiosi che ci ha permesso di essere qui oggi. Quest'ulivo e' il segno che la legalita' e la pace sono possibili''. A fare da testimonial alla campagna di raccolta fondi e' arrivato Ligabue, il cittadino piu' famoso di Correggio. ''Questa e' una terra forte - ha detto - La gente che ha vissuto qui possiede questa caratteristica, nel bene o nel male. Spesso ci dimentichiamo del coraggio di cui e' capace la Sicilia. Nelle mie canzoni parlo spesso di speranza. Ma la speranza va sempre alimentata come fanno i ragazzi che lavorano su questi terreni facendoli tornare simbolo di legalita'''.
(ANSA). KWY 26-LUG-08 17:13 NNN



NELLE FOTO (by C. Di Carlo): Don Luigi Ciotti e Luciano Ligabue durante la cerimonia per piantare l'albero di ulivo; Luciano Ligabue firma l'autografo ad un ragazzo.

LA MEMORIA. Rita Atria: "L’unica speranza è non arrendersi mai..."

23/07/2008

"Rita, non t'immischiare, non fare fesserie" le aveva detto ripetutamente la madre, ma, Rita aveva incontrato Paolo Borsellino, un uomo buono che le sorride dolcemente, e lei parla, parla…racconta fatti. Fa nomi. Indica persone, compreso l'ex sindaco democristiano Culicchia, che ha gestito e governato il dopo terremoto. "Fimmina lingua longa e amica degli sbirri" disse qualcuno intenzionalmente, e così al suo funerale, di tutto il paese, non andò nessuno. Non andò neppure sua madre, che, disamorata, fredda e distaccata, l'aveva ripudiata e minacciata di morte perché quella figlia così poco allineata, per niente assoggettata, le procurava stizza e preoccupazione. Inoltre, sia a lei che a quella poco di buono di sua nuora, Piera Aiello, che aveva plagiato a picciridda, non perdonava di aver "tradito" l'onore della famiglia. Si recherà al cimitero parecchi mesi più tardi, e con un martello, dopo aver spaccato il marmo tombale, rompe pure la fotografia della figlia, una foto di Rita appena adolescente. Figlia di un piccolo boss di quartiere facente capo agli Accardo, Rita Atria è nata e cresciuta a Partanna, piccolo comune del Belice, una vasta zona divenuta famosa perché distrutta dal terremoto. Un territorio in cui, in quel periodo, si dice circolasse denaro proveniente dal narcotraffico, e di cui Rita non sopporta le brutture, le vigliaccherie, la tristezza. L'ignavia delle donne. "Una donna sa sempre cosa sta combinando suo marito o suo figlio" ha spiegato Piera Aiello moglie di Nicola Atria, fratello di Rita, e lei condivide con convinzione. Sensibile all'inverosimile, eppur ostinata, caparbia, fin dall'adolescenza dimostra di essere molto dura ed autonoma. A casa sua, faide, ragionamenti, strategie, vecchi rancori, interessi di ogni tipo, erano all'ordine del giorno, perché, suo padre, don Vito Atria, ufficialmente pastore di mestiere, era un uomo di rispetto che si occupava di qualsiasi problema; per tutti trovava soluzioni; fra tutti, metteva pace, "…per questioni di principio e di prestigio…- sosteneva Rita - senza ricavarne particolari vantaggi economici…" tranne quello di rubare bestiame tranquillamente ed avere buoni rapporti con tutti quelli che contavano.
Cionostante, il 18 novembre dell'85, don Vito Atria, non avendo capito che il tempo è cambiato, e che la droga impone un cambio generazionale, è stato ucciso. Rita innanzi a quel cadavere crivellato di colpi, fra gli urli e gli impegni di rappresaglia dei famigliari, anche se appena dodicenne, dentro di sé, comincia a rimestare vendetta. Ma la morte del padre le lascia un vuoto. Rita, allora, riversa tutto il suo affetto e la sua devozione sul fratello Nicola. Ma Nicola era un "pesce piccolo" che col giro della droga, aveva fatto i soldi e conquistato potere. Girava sempre armato e con una grossa moto. Quello con il fratello diventa un rapporto molto intenso, fatto di tenerezza, amicizia, complicità, confidenze. E' Nicola, infatti, che le dice delle persone coinvolte nell'omicidio del padre, del movente; chi comanda in paese, le gerarchie, cosa si muove, chi tira le fila… trasformando così una ragazzina di diciassette anni, in custode di segreti più grandi di lei.
Tutto ciò non le impedisce di innamorarsi e fidanzarsi con Calogero, un giovane del suo paese. Fino al 24 giugno del 91, il giorno in cui anche suo fratello Nicola viene ucciso e sua cognata Piera Aiello, che da sempre aveva contestato a quel marito le frequentazioni e i suoi affari, collabora con la giustizia e fa arrestare un sacco di persone. Calogero interrompe il fidanzamento con Rita perché cognata di una pentita e sua madre Giovanna va in escandescenze. Dopo il trasferimento in località segreta di Piera e dei suoi figli, Rita a Partanna è veramente sola: rinnegata dal fidanzato e dalla mamma, non sa con chi parlare, con chi scambiare due parole. Sottomettersi come sua madre o ribellarsi? All'inizio di novembre, ad appena diciassette anni, decide di denunciare il sistema mafioso del suo paese e vendicare così l'assassinio del padre e del fratello. Incontra il giudice Paolo Borsellino, un uomo buono che per lei sarà come un padre, la proteggerà e la sosterrà nella ricerca di giustizia; tenterà qualche approccio per farla riappacificare con la madre. La ragazzina inizia così una vita clandestina a Roma. Sotto falso nome, per mesi e mesi non vedrà nessuno, e soprattutto non vedrà mai più sua madre. L'unico conforto è il giudice. Ma arriva l'estate del '92 e ammazzano Borsellino, Rita non ce la fa ad andare avanti. Una settimana dopo si uccide. Ma la storia di Rita non finisce così, come così non finisce la speranza e la voglia di cambiare questo paese e di denunciare le mafie. Ogni anno in tutta Italia vengono organizzate iniziative per ricordarla e per continuare il suo percorso.

Paceco, i meloni della legalità

Paceco, 25.07.2008 di Rino Giacalone


Paceco. Dapprima il grano, adesso i meloni. I terreni che la mafia trapanese ha usato per testimoniare la sua presenza ingombrante ed invasiva, ed anche violenta, nel territorio, adesso sono tornati ad essere produttivi e solo a tutto guadagno della società civile. Prodotti poi “tutta salute” considerato che si tratta di coltivazioni esclusivamente biologiche. Nelle campagne dove ha regnato il capo mafia di Trapani Vincenzo Virga, il boss che è indagato per essere stato il mandante della uccisione di Mauro Rostagno e che sconta l’ergastolo per tutta un’altra serie di delitti, compreso quello orrendo della strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985 quando il tritolo destinato al giudice Carlo Palermo dilaniò Barbara Rizzo Asta ed i suoi due gemelli di sei anni Salvatore e Giuseppe, in questi terreni confiscati alla famiglia Virga oggi lavora la cooperativa “Placido Rizzotto” in attesa che anche qui nasca una cooperativa di giovani trapanesi che vogliano coniugare lavoro, di quello regolare, rispettoso dei contratti e della sicurezza, e l’antimafia.


Lunedì mattina, dopo che nelle scorse settimane c’era stata la mietitura, con il grano raccolto che ha preso la direzione dei mulini romagnoli dove si produce la pasta col marchio di Libera, c’è stata adesso la raccolta dei meloni gialli che sono una caratteristica produzione di questi terreni tanto che a Paceco il melone ha ricevuto la denominazione “doc”. Questi meloni però hanno un bollino in più, anzi, come dice Margherita Asta, coordinatrice provinciale di Libera, una vitamina in più, “la vitamina l della legalità”. Grande festa si è fatta durante la raccolta, mentre in serata in piazza a Paceco oltre ad una degustazione dei prodotti che hanno il marchio di Libera e la cui varietà va crescendo sempre di più, c’è stato un dibattito sui temi delle confische dei beni che da queste parti hanno incontrato più di qualche ostacolo per essere realizzate. Su tutte c’è la storia di un prefetto, Fulvio Sodano, che ha anche perduto il posto, trasferito improvvisamente nel 2003 da Trapani ad Agrigento, perché proprio aveva deciso di togliere i beni confiscati dal possesso dei boss che ancora li gestivano.


Lunedì sera è stato il momento di spiegare in piazza, a Paceco, la “rivolta” nei terreni che si trovano nella contrada Gencheria, tra Trapani e Paceco, dove una volta governavano i boss mafiosi e adesso lavorano le cooperative antimafia di Corleone. Lì dove si sono raccolti il frumento e i meloni, si è così messa in moto una catena di produzione e commercializzazione dove ha tutto da guadagnare la società civile a svantaggio della mafia che perde ciò che aveva maltolto. In piazza, davanti al municipio invitati da Libera e dal coordinatore provinciale Margherita Asta, c’erano il comandante provinciale dei Carabinieri e quello della Compagnia, col. Vincelli e magg. Carletti, il sindaco di Paceco Martorana e l’assessore Callotta del Comune di Trapani, Gianluca Faraone presidente di Libera Terra e presidente della coop Placido Rizzotto (per Libera nazionale si occupa del settore beni confiscati), Nino Tilotta, presidente della coop “25 Aprile”, ed il sostituto procuratore di Trapani Andrea Tarondo: si sono ritrovati a parlare di questo passo in avanti nella “riconquista” delle terre, quasi che ci si trovi oggi a perpetuare la storia siciliana, ancora le battaglie dei lavoratori e dei contadini che decenni e decenni addietro si trovarono contro i latifondisti che sfruttavano la manodopera, rendendola schiava. Agricoltori che a loro volta si sono trovati a che fare con i mafiosi, con i campieri-boss, come Francesco Messina Denaro, il capo mafia del Belice, diventati latifondisti.


Il messaggio trasmesso durante il dibattito di lunedì sera è stato quello utile a sollecitare alla cittadinanza maggiore attenzione ai temi delle confische, ma anche e soprattutto raccontare questo anno di lavoro nelle terre tolte al capo mafia di Trapani Vincenzo Virga. Terreni dove hanno lavorato assieme ai giovani delle coop antimafia anche le braccia di uomini e giovani del circondario, agricoltori di Paceco, Salemi, che hanno conosciuto che esiste la possibilità di potere lavorare venendo messi in regola, e che il lavoro nero non è la normalità e la regola come qualche spregiudicato imprenditore e datore di lavoro insiste nel voler fare credere, ma qualcosa di illegale.”E’ stato un successo – ha detto Gianluca Faraone – abbiamo lavorato e abbiamo fatto i nostri raccolti, il prossimo anno pensiamo a triplicare, a coltivare l’aglio caratteristico di questa zona. E’ stato un successo perché eravamo preoccupati che qualcuno potesse venire a far danno questo non è successo e oggi siamo ancora di più contenti per l’attenzione che ci dedicano le amministrazioni ed i cittadini di questo territorio”.


“Questa è una provincia – ha affermato il pm Andrea Tarondo – che è riconosciuta come lo zoccolo duro dell’organizzazione mafiosa, dove si colgono ancora i segni della presenza di Cosa Nostra, mischiata e infiltrata nel sistema imprenditoriale, ma qui non è tutto mafia, la presenza mafiosa può essere forte come lo è ma è minoranza e di questa terra fuori ricomincia sempre di più a parlare anche delle sue positività, delle sue forti esperienze nel campo dell’antimafia, della voglia che c’è da parte di settori dell’impresa di rinascere e operare rispettando la legalità. Mi è successo di recente – ha ancora continuato il magistrato di origine bolognese e che da più di 10 anni lavora in Procura a Trapani, applicato della Dda per le più rilevanti indagini antimafia - quando parlando del mio lavoro a Trapani, c’è stato subito il mio interlocutore che ha subito collegato Trapani alla Calcestruzzi Ericina (azienda confiscata a Virga e rientrata nel circuito imprenditoriale grazie ad una coop formata dai dipendenti ndr) che è uno dei più rilevanti esempi a proposito di beni sottratti alla mafia, sia sotto l’aspetto dell’uso strategico fatto dai boss, sia sotto l’aspetto del risanamento. Un fatto positivo di questo territorio che oggi si sta trasformando in un centro per il riuso dei rifiuti provenienti dagli sfabbricidi dopo che i mafiosi per un periodo erano riusciti a controllarla sebbene confiscata”.


Il pm Tarondo ha voluto parlare anche delle indagini, di quelle concluse con giudizi di colpevolezza, da dove emerge che la mafia per anni è riuscita a trattenere il maltolto anche se confiscato. “Un prefetto, Fulvio Sodano, decise di scoperchiare questa pentola e sbloccare le confische che non si riuscivano ad eseguire. Lui stesso ci ha raccontato di ciò a cui andò incontro per quella sua iniziativa. Il trasferimento da Trapani nel 2003”. La vicenda di Sodano fa parte di un faldone giudiziario ancora aperto. In un processo è stata depositata la trascrizione di una intercettazione, il colloquio tra due mafiosi che dicevano che quel prefetto era tinto e da Trapani doveva andarsene. Cosa che accadde. “Credo – ha concluso Tarondo – che gli applausi oggi vadano rivolti a coloro i quali si occupano dei beni confiscati, a chi ha fatto la mietitura e raccolto i meloni in queste terre, ma non dobbiamo dimenticare che si tratta di risultati non definitivamente acquisiti, ma che vanno sempre difesi, le conquiste in questo territorio hanno il difetto e non per causa loro di essere sempre provvisorie”.


Nel trapanese l’uso dei beni confiscati è stato un lavoro condotto in salita, ma alla fine ci si sta riuscendo: “Credo che per il futuro l’idea migliore è quella della creazione di una agenzia che gestisca i beni confiscati – ha sostenuto Gianluca Faraone – l’esperienza ci ha mostrato spesso l’inadeguatezza degli uffici del Demanio, a Trapani poi si è scoperto come questi uffici erano facilmente avvicinabili”. Sotto processo è un ex funzionario del Demanio, Francesco Nasca, avrebbe avuto il compito di deprezzare il valore di alcuni beni per farli tornare nel possesso dei boss.


L’aspetto commerciale è stato poi un altro dei temi affrontati. Nino Tilotta della coop 25 aprile ha presentato le iniziative di commercializzazioni che presto verranno assunti dai centri commerciali “Coop”: “Puntiamo – ha detto - a commercializzare i prodotti che giungano nei nostri centri a chilometri zero, significa raccogliere ed accogliere la produzione locale, preferendo alle angurie coltivate dal mafioso quelle che portano il marchio della legalità”. I primi 500 quintali di meloni gialli raccolti a Gencheria sono già a disposizione.


Rino Giacalone

Trapani, una procura che si svuota, mafiosi e complici ringraziano

Trapani, 24.07.2008 | di Rino Giacalone

Tre magistrati sono andati già via dalla Procura di Trapani, i pubblici ministeri Luciano Di Transo, Marco Gaeta, Elisa Pazè, un altro è in procinto di farlo, il sostituto procuratore Delia Boschetto, c’è poi l’ufficio lasciato da un altro magistrato ancora, Alessandra Converso, che dopo un lungo periodo di astensione obbligatoria per maternità, anche lei sarà presto destinataria di trasferimento. Cinque poltrone, dunque, in totale, dell’ufficio inquirente trapanese che sono destinate a liberarsi ma a restare vuote.
E altre se ne renderanno disponibili allo stesso modo, altri pm sono in procinto di chiedere trasferimento per avvicinarsi ai rispettivi luoghi di origine, ma non ci sono certezze sulle nuove nomine. E alla fine si deve prendere atto che quando la lotta alla criminalità di qualsiasi genere si dice e si chiede, e si promette anche, dovrebbe farsi più incisiva si scopre invece che lo Stato di fatto è disarmato. E lo ha fatto da se stesso. Come è successo già altre volte, sempre a Trapani, quando ad un certo punto, tra il 2001 ed il 2003, quando la lotta alla mafia poteva essere accelerata, a seguito della cattura del capo mafia Vincenzo Virga, che era stato latitante per sette anni, riuscendo a tenere le fila dei collegamenti tra mafia, impresa e politica, essa ha conosciuto una fase di stallo, con il tentativo di trasferire investigatori di punta, mettendo in dubbio la capacità di alcuni inquirenti, facendo trasferire un prefetto.


Il caso Trapani di recente è finito sotto esame da parte della Giunta nazionale dell’associazione magistrati. La Procura di Trapani è tra quelle cosiddette di frontiera del meridione d’Italia, accomunate tutte da un futuro per niente allegro: secondo le previsioni, ritenute attendibili, fatte dall’Anm, si tratta di uffici giudiziari che verranno svuotati nel giro di poco tempo per le modifiche all’ordinamento giudiziario. La previsione non è a lungo termine, ma si sta già realizzando. A Trapani per i posti vuoti nell’organico della Procura non ci sono magistrati in arrivo. Il nuovo concorso non potrà portare nuovi pm, e al Csm, dopo la pubblicazione dei bollettini che indicano la disponibilità dei posti, non ci sono domande presentate da giudici o pm che chiedano di essere assegnati a Trapani. Il guaio è serio, sempre a secondo da che punto di vista lo si guardi, le nuove norme dell’ordinamento giudiziario impediscono la nomina nelle procure degli “uditori”, i vincitori di concorso appena nominati possono andare solo nei Tribunali, come accadrà a partire dal concorso appena concluso, per accedere alle procure i giudici dovranno avere 4 anni di anzianità, e non potrà più accadere che un giudice transiti nei ruoli del pm, cambiando ufficio restando nello stesso Palazzo di Giustizia, un giudice nominato pm deve cambiare distretto se non addirittura regione. In questi anni sono stati gli uditori, li chiamavano “giudici ragazzini”, a riempire gli organici delle Procura di frontiera, quelle dove più da vicino si è combattuto e si è dato contrasto al crimine organizzato e mafioso. Giudici e pm che sono cresciuti, si sono forgiati, alcuni hanno poi ottenuto e chiesto trasferimento, altri sono rimasti.

Ma se le nuove norme di oggi fossero state sempre in vigore, pm, come il trapanese Andrea Tarondo, a Trapani forse non sarebbero mai arrivati. Certamente altri non ne potranno arrivare. “Un problema drammatico – conferma proprio il sostituto procuratore Andrea Tarondo – riguarda la Procura di Trapani come tutte le altre Procure che operano nei territori dove esiste un’alta densità mafiosa. Accadrà nel tempo, e non ce ne vorrà nemmeno molto, che queste Procure si svuotino, non potrà esserci ricambio, saranno contenitori senza che nessuno li occuperà. La modifica di questa norma è urgente se non si vuole causare un pericoloso arretramento dinanzi ad ogni forma di mafia”. Il periodo del tutto completo per l’organico della Procura di Trapani non è dunque durato molto tempo. Tredici posti in organico dei quali oggi occupati ne risultano occupato solo nove, ma non sarà ancora così per molto ancora. Modifiche alle norme, ma non solo, rendono difficile amministrare la giustizia. Non di poco conto è il problema dei tagli alle spese, che sta investendo le forze dell’ordine come la magistratura. Gli effetti anche in questo caso non sono tardati a farsi vedere. Nelle settimane scorse c’è stata una pericolosa assenza di carta in Procura che ha messo a rischio l’esecuzione di alcune misure cautelati. Scorte esaurite e difficoltà a rimpinguarle. Così come le auto di servizio dei magistrati. Un poliziotto è finito anche in ospedale per avere respirato gas di scarico finiti nell’abitacolo, e non sempre le blindate sono in grado di viaggiare. In questo modo si combatte la mafia e i suoi complici. Solo che dalle armi spuntate messe a disposizione adesso si rischia di non trovare nemmeno chi quelle armi, anche malfatte, deve impugnare.

Beni Confiscati. Boom di adesioni ai campi di lavoro nei feudi confiscati alla mafia

Cerca di stare tranquilla sulla sedia di vimini, ma l´entusiasmo è grande. Scatta come una saetta. Anna vive a Padova e ha 19 anni. Una carriera di scout e tanta voglia di esserci. Quando ha saputo che la coop "Placido Rizzotto" organizzava campi di lavoro nei terreni confiscati alla mafia, ha deciso di sporcarsi le mani per provare a capire se la Sicilia è quella dipinta dalla tv.

«Sto vivendo una bellissima esperienza a Portella della Ginestra - racconta - La Sicilia non è solo mafia, ma anche antimafia. È una realtà sicuramente diversa da quella che ci prospettano i telegiornali. La disponibilità e l´impegno dei soci della cooperativa è indescrivibile».
Armata di coltellino e cappellino, Anna è una di quei ragazzi che a Paceco hanno raccolto i meloni nelle terre confiscate al boss trapanese Vincenzo Virga. Cinquecento quintali che verranno commercializzati in Italia dalla Coop e che conterranno una vitamina in più: la "l" della legalità. Il campo di lavoro di Anna durerà una settimana. Niente discoteche, pub, ma terra da bonificare. Vacanze in controtendenza rispetto a quelle della maggior parte dei giovani, che fanno, però, registrare un boom di adesioni. Sono migliaia i volontari e le volontarie che ogni anno scelgono di lavorare nelle cooperative sociali gestite da Libera, l´associazione fondata da don Luigi Ciotti. Ragazze e ragazzi che sgobbano là dove nasceva il potere dei più temuti boss mafiosi.
Dopo Ferragosto, quattordici ragazzi tra i 18 e i 22 anni di Legambiente, provenienti da Italia, Francia, Giappone, Repubblica Ceca, per due settimane nella "Placido Rizzotto" aiuteranno i soci della cooperativa nata dal progetto "Libera terra", promosso da Libera, a partecipare alla sfida più impegnativa, quella della produzione del vino. «A fine agosto - spiega Francesco Galante, socio della cooperativa - l´attività principale di volontariato consisterà nella vendemmia». Numeri record quest´anno, per il vino. È prevista, infatti, per il 2008 la produzione di 300 mila bottiglie di vino "Centopassi", oltre a 850 mila confezioni di pasta che la cooperativa produce ogni anno.
Tempi "duri" per i volontari. La sveglia suona alle 5, per iniziare già alle 6 a spietrare e pulire le terre che appartenevano a Bernardo Brusca. Le ore pomeridiane diventano un momento di formazione e informazione sui temi della legalità e dell´uso sociale dei beni confiscati alla mafia. La sera, invece, iniziative, animazione e socialità.
Elisa, 22 anni. Tanta forza e un sogno in testa. Aiutare a bonificare la terra che un tempo apparteneva ai fratelli Grizzaffi, nipoti di Totò Riina. Il suo accento la dichiara già dalle prime battute. Da Firenze si trova in Sicilia per coordinare gruppi. Ma non di professori di scienze internazionali. Ciò per cui sta studiando. Ma di lavoro sui campi. Elisa è una dei trecento giovani che, a Corleone, per due settimane e fino ad ottobre, parteciperanno ai dieci campi di lavoro organizzati da «Lavoro e non solo» e dall´Arci sui terreni confiscati alla mafia.
«Servono braccia per piantare e raccogliere pomodori, mietere il grano e vendemmiare le uve. Servono per "Liberarci dalle spine" della criminalità organizzata. L´attività nei campi è un modo - racconta Elisa - per dare un segnale forte contro il potere di Cosa nostra».
La cooperativa gestisce terreni a Canicattì, Monreale e Corleone, regno fino a qualche anno fa del boss Totò Riina. Di mattina tutti nei campi a legare viti e a zappare per i pomodori. Piccola pausa pranzo e di nuovo all´opera per partecipare a dibattiti sui temi dell´antimafia.
I campi di lavoro "LiberArci dalle spine" saranno quest´anno dedicati a Peppino Impastato e Giuseppe Fava, morti rispettivamente nel 1978 e nel 1984. «Due giornalisti - spiega Calogero Parisi, presidente di "Lavoro e non solo" - che coniugavano il lavoro d´inchiesta con interessi per il mondo dell´arte, convinti che fare antimafia significhi anche promuovere cultura».
Anche la cooperativa NoE (NoEmarginazione) da martedì prossimo, ospiterà cinquanta giovani di Bergamo che, a Partinico, zapperanno i pomodori in quello che un tempo era il regno del boss Francesco Madonia.
Repubblica/Palermo, 25 Luglio 2008

RADOVAN KARADZIC, IL DOTTORE DELLA MORTE

di Davis Fiore

La notizia della cattura di Karadzic chiude un capitolo importante della storia, ma non ne sradica il fondamento ispiratore che ha condotto alle sanguinose atrocità umane che tutti noi conosciamo, ossia al genocidio nei Balcani. Radovan Karadzic era uno psichiatria e Slobovan Milosevic aveva ricevuto trattamenti mentali da lui per 25 anni prima della pulizia etnica. Il Partito Democratico Serbo, di cui Karazdic era a capo, venne in realtà fondato dal suo amico Jovan Rascovic, che era anche suo maestro. Rascovic teorizzava la Super razza Serba, su cui si basarono le operazioni di igiene razziale nella ex-Jugoslavia. Ideologie che ricordano molto da vicino l’eugenetica di Rudin, la quale precedette l'avvento del nazismo. Come racconta un suo collaboratore, Rascovic praticava l'elettroshock su bambini e in particolare su donne croate, provando un immenso piacere. Era sua convinzione che i mussulmani soffrissero di una fissazione erotica anale e di una compulsione ad accumulare beni e denaro. [1]

Jovan Rascovic e Radovan Karadzic sono stati addestrati con le tecniche dell'Istituto Tavistock di Londra, dove si fa largo uso di lavaggio del cervello e di droghe. Karadzic era anche un truffatore e per aumentare i profitti, presso l'Ospedale di Sarajevo in cui lavorava, inventava valutazioni psicologiche del tutto false, sia a criminali che volevano sottrarsi alla giustizia fingendosi pazzi, sia a dipendenti del servizio sanitario che volevano ottenere in anticipo la pensione. [2]

Ci sarebbero molte cose da dire anche sull'ascesa di Hitler e sul terrorismo, ma quello che più preoccupa è che un'ideologia deviata come quella psichiatrica sia ancora accettata dal mondo accademico, possedendo una parvenza di scientificità. Ma i risultati sono quelli che tutti noi conosciamo e gli strumenti barbari come sempre: l’elettroshock, tuttora usato in alcune cliniche private italiane e in diverse parti del mondo; gli psicofarmaci, somministrati a milioni di bambini, nonostante casi di morte improvvisa, suicidio, e l’interminabile lista di effetti collaterali; per non parlare delle contenzioni in ospedali psichiatrici o dei TSO compiuti illegalmente.

Un sintomo quindi è stato curato, ma non il devastante cancro sociale che ne sta all'origine.

Davis Fiore

[1] L’inganno psichiatrico, Sensibili alle foglie Editrice - Roberto Cestari

[2] Sudetic, Chuck (1999). Blood and Vengeance: One Family's Story of the War in Bosnia. New York: Penguin Books

venerdì 25 luglio 2008

Mafia. Il gruppo PD all'Ars ha presentato un ddl a sostegno dei comuni e delle coop sociali che gestiscono i beni confiscati

Il gruppo del Partito Democratico all’Assemblea regionale siciliana ha presentato un disegno che intende facilitare e ottimizzare la gestione e il riutilizzo dei beni definitivamente confiscati alla mafia da parte di enti locali, associazioni e cooperative. Il ddl è stato presentato dal presidente del gruppo Antonello Cracolici e dal vicepresidente dell’Ars Camillo Oddo, ed è stato sottoscritto dagli altri deputati del gruppo PD.
“Colpire i patrimoni dei mafiosi – dicono Cracolici e Oddo – è un aspetto fondamentale nella lotta a Cosa nostra e questa proposta di legge, che raccoglie indicazioni provenienti dal mondo cooperativo, del volontariato e dagli stessi enti locali, si inserisce nel solco di una lunga tradizione che parte da Pio La Torre, il primo a volere una legge in grado di aggredire i beni della mafia”.

Al 31 dicembre 2007 gli immobili confiscati definitivamente in Italia erano 7.328, e il 45% di questi si trova in Sicilia: nonostante ciò la Regione siciliana non ha mai legiferato in materia di gestione dei beni confiscati.

“Intendiamo, con questa proposta, varare una legge regionale che sia da supporto a quella nazionale – continuano Oddo e Cracolici - perché in Sicilia servono, più che altrove, norme e risorse per valorizzare e ‘convertire’ i patrimoni confiscati, che possono essere una straordinaria risorsa anche lavorativa per i giovani, specie per quelli che si attivano in cooperative”.

La proposta del PD prevede essenzialmente tre obiettivi: il primo è l’istituzione di un fondo da 15 milioni di euro per finanziare la fase di progettazione economico-sociale e tecnica per il riutilizzo dei beni, dal momento che i comuni non dispongono quasi mai delle somme necessarie a questo scopo; il secondo è l’erogazione di un contributo pari al 50% degli interessi maturati sui prestiti contratti per il finanziamento delle opere, nonché di tutte le spese di progettazione; il terzo obiettivo è la copertura, da parte della Regione, del 75% delle garanzie fideiussorie necessarie a garantire l’accesso al credito per cooperative e associazioni che, non essendo proprietarie dei beni che restano al Demanio, hanno enormi difficoltà nell’accesso al credito.

Il Commento di Walter Veltroni
Ho molto apprezzato la proposta presentata dal nostro gruppo all'Assemblea regionale della Sicilia. Come sapete l'impegno di lotta alla mafia è iscritto nel Dna del Partito democratico e credo che questa vostra iniziativa sia un modo per declinare la lotta alla criminalità in maniera positiva, consentendo alle realtà locali di recuperare e di riusare in maniera davvero utile i beni confiscati. E' una iniziativa che si ricollega allo spirito della legge per la quale si era battuto più di tutti Pio La Torre e che al tempo stesso opera perché questi principi si possano tradurre in fatti. Sappiate che in questa iniziativa avete pienamente il mio sostegno e quello dell'intero Pd.

Isola. O il pet coke o la vita!


Isola delle Femmine. Minacce di morte ai cittadini che lottano contro Italcementi

Contro Pino Ciampolillo, leader del comitato “Isola Pulita”, le intimidazioni di chi vuole difendere la permanenza dello stabilimento. “Abbiamo fallito, chiudiamo”, dicono i soci di Isolapulita

ECCO UNA NOTA PUBBLICATA SUL LORO SITO:
Abbiamo comunicato che a seguito delle minacce verso dei componenti del Comitato Cittadino Isola Pulita, prendevamo atto pubblicamente di aver fallito nella nostra “missione”: di legalità, di ambiente, di amministrazione, di trasparenza, di sviluppo, di territorio, di crescita sociale e culturale della nostra COMUNITA’. Abbiamo fallito nella nostra battaglia sulla difesa della salute dei cittadini, sulla qualità dell’aria e delle nostre acque. Abbiamo fallito nel richiedere, da parte della Italcementi e delle Istituzioni, il rispetto delle leggi e delle regole in materia ambientale, nella salvaguardia dei posti di lavoro. Abbiamo fallito nel nostro intento di dare un contributo atto a favorire il dialogo e il confronto civile attraverso la partecipazione di tutti i CITTADINI. Dichiaravamo LA NOSTRA RESA ! e quindi la cessazione di qualsiasi attività del sito Isola Pulita.Diverse sono state le domande circa il fatto se il sito sia stato effettivamente chiuso. PRECISIAMO. Tutto ciò che è stato pubblicato successivamente (alla nostra decisione) attiene ESCLUSIVAMENTE all'IMPEGNO che ci siamo assunti nei confronti dei nostri lettori simpatizzanti e di liberi cittadini: offrire uno spazio di discussione analisi e proposte sui valori che hanno contraddistinto il nostro agire politico e i consequenziali comportamenti messi in campo da chi pensa che il territorio, la politica, l’ambiente, la legalità sono degli optional nella vita democratica di una Comunità.La chiusura del sito non è assolutamente da confondersi con l’oscuramento TOTALE, questo perché, nella vita come in politica, qualsiasi persona di buon senso non può assolutamente CANCELLARE il passato, le esperienze fatte e VISSUTE,.Qualsiasi persona di buon senso GUARDA, ANALIZZA il PASSATO le esperienze vissute, come fonte esperienziale per il miglioramento delle sue condizioni di vita e come crescita umana sociale e spirituale nella sua azione quotidiana.Senz’altro è possibile cancellare (oscurare dal sito) articoli, foto documenti che hanno informato e documentato il caso di abusivismo, di degrado, di illegalità di…………ma NON potrà sicuramente cancellare la OMESSA responsabilità o il non aver ottemperato agli obblighi di controllo e di rispetto delle leggi e delle regole. Potete strappare le prime lettere d’amore, potete strappare le foto dei vostri primi amori, della vostra prima gita, ma non riuscirete a cancellare le sensazioni le emozioni i sentimenti che fanno ormai parte del VOSTRO ESSERE e vi accompagneranno per tutta la vita.NON C’E’ PEGGIOR SORDO CHE NON VUOL SENTIRE, NON C’E’ PEGGIORE CIECO CHE NON VUOLE VEDER, NON C’E’ PEGGIOR MUTO CHE NON VUOL PARLAREE’ trascorso più di un mese da quello sciagurato pomeriggio dell’11 giugno - SCIAGURATO per la democrazia, per l’informazione, per la legalità a Isola delle Femmine.No non vogliamo parlare di quello che avremmo voluto vedere, sentire o ricevere, ma come nostra abitudine: ABBIAMO VISTO ABBIAMO UDITO e senza piangerci addosso questo ciò che conta. Di TUTTO questo prendiamo atto e da questo partiamo senza falsi illusioni e senza distorcere ciò che è stato.Ferma resta la nostra determinazione nei confronti delle Istituzioni affinché ci garantiscano tutela, agibilità democratica, libero esercizio della informazione e il diritto ad organizzarci.Ribadiamo per l’ennesima volta la nostra posizione nei confronti dello stabilimento della Italcementi, dei dipendenti, dei cittadini e di Isola delle Femmine:Il rispetto delle leggi e delle regole in materia ambientali , la tutela della Salute degli operai e dell’intera cittadinanza il rispetto dell’ambiente e delle bellezze naturali sono con il mantenimento dei livelli occupazionali le posizioni che ha sempre sostenuto e guidato l’azione del il Comitato Cittadino Isola Pulita. Si è altresì denunciato la possibile strumentalizzazione, da parte della Italcementi, tesa a giustificare una sospensione della produzione, dovuta più ai gravi fatti che sono stati oggetto d'indagine da parte dell'Autorità Giudiziaria a causa dell'ingerenza della mafia nella gestione degli appalti, cui la stessa Ditta era aggiudicataria.

http://wpop10.libero.it/cgi-bin/vlink.cgi?Id=HhhhyavwiPYVWVOeFc6Sp5Zuz8GTefJ8Yx1Vh/09nd9YEba2XB9viLlBjke54sXw&Link=http%3A//www.isolapulita.it/

giovedì 24 luglio 2008

Quando Leoluca Bagarella sposò Vincenzina Marchese

(ANSA) - PALERMO, 23 LUG - Le nozze celebrate oggi a Corleone tra Lucia Riina, ultimogenita del capo di Cosa Nostra, e il giovane rappresentante Vincenzo Bellomo, richiamano quelle di un altro matrimonio di "famiglia", anche se decisamente più fastoso. Era il 29 aprile del 1991 quando Leoluca Bagarella, cognato di Totò Riina e zio di Lucia, impalmò Vincenzina Marchese, anche lei donna di "rispetto". Il ricevimento si svolse nel salone liberty di Villa Igiea, il più esclusivo albergo di Palermo. La sposa, con il tradizionale abito bianco e un lunghissimo velo di organza, scese emozionata da una Rolls Royce, aiutata dal marito che indossava un impeccabile abito scuro. Tra le centinaia di invitati si mischiarono anche numerosi agenti in borghese, che filmarono con discrezione queste "scene da un matrimonio". Come nelle case reali, infatti, le nozze tra i rampolli di "famiglie" con quattro quarti di nobiltà mafiosa per anni avevano cementato alleanze e imposto nuovi equilibri. Ma quel matrimonio, era invece destinato a un finale da tragedia greca, dopo essere stato fortemente osteggiato dallo stesso Totò Riina, all'epoca latitante insieme alla moglie Ninetta, sorella di Leoluca, e ai quattro figli. Il padrino, secondo quanto raccontano i pentiti, si sarebbe opposto perchè i futuri suoceri erano separati. Questioni "d'onore", insomma, che sfociarono qualche tempo dopo in motivazioni ben più gravi. Un fratello di Vincenzina, Pino Marchese, cominciò a collaborare con i magistrati. Un pentimento vissuto in famiglia come un vero e proprio marchio d'infamia. Non basta: nel marzo del '94, mentre Bagarella era nuovamente latitante, la moglie subì un aborto e cadde in un periodo di profonda depressione che la portò al suicidio.Vincenzina Marchese, secondo la ricostruzione effettuata sulla base delle dichiarazioni del pentito Tony Calvaruso, si sarebbe tolta la vita il 12 maggio del 1994. "Quando andai a casa sua - ricorda Calvaruso - trovai Bagarella inginocchiato dinanzi al cadavere. Diceva che la moglie lo 'rimproveravà, facendogli colpa della sterilità del matrimonio". Vincenzina aveva infatti saputo del rapimento del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del 'pentito Santo, ed era convinta che a lei "non poteva essere concesso di avere dei figli perchè il marito uccideva i bambini e che per questo Dio la puniva". Anche il pentimento di suo fratello Pino l' aveva turbata: "Bagarella mi diceva che, ogni volta che ne sentiva parlare in tv - ricorda Calvaruso - rimaneva molto scossa e diceva che avrebbe ammazzato il fratello. Lui però sapeva che non era vero, e per rassicurarla le diceva che non gli importava più di tanto". Il corpo di Vincenzina, sempre secondo il racconto dei pentiti, sarebbe stato seppellito di nascosto dal marito. E quando fu arrestato in un medaglione che portava al collo aveva la foto di quella moglie che adorava. (ANSA)